Coronavirus Psychologist interview

4 domande sul Coronavirus alla psicologa sociale Simona Sacchi

Come reagiamo al clima di incertezza e paura alimentato dal pericolo di contagio da Coronavirus? Lo abbiamo chiesto a Simona Sacchi, ricercatrice di Psicologia Sociale e Docente di Cognizione Sociale del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca.

 

Qual è l’approccio della psicologia sociale al Coronavirus?

La psicologia sociale si sta impegnando a osservare i comportamenti di gruppo e a comprendere le loro motivazioni. I media ci hanno mostrato comportamenti in apparenza inconsapevoli e irrazionali, la corsa all’approvvigionamento dei generi alimentari ad esempio o la fuga di persone che si mettevano in viaggio da Nord a Sud per tornare a casa, comportamenti che si sono rivelati dannosi ai fini del contagio e che sono stati stigmatizzati come immorali dal resto della comunità. Questi comportamenti, a dire il vero, non sono poi così irragionevoli e immotivati. Di fronte al rischio, un rischio sconosciuto e per niente familiare come quello rappresentato dal Coronavirus, mettiamo in atto comportamenti che servono a ripristinare il controllo e a gestire l’ansia, rifugiandoci nell’appartenenza al gruppo sociale di riferimento, quello nel quale ci sentiamo protetti e al sicuro.

 

Perché fatichiamo a sopportare di dover stare a casa e troviamo una scusa per uscire? È una forma di negazione?

No, non è una forma di negazione. Si tratta di comportamenti che vanno spiegati in modo più approfondito e sotto diversi aspetti. Innanzitutto va detto che le persone tendono a resistere al cambiamento delle proprie abitudini, faticano a modificare il proprio stile di vita; in secondo luogo, siamo animali sociali, soffriamo la mancanza di relazioni. Le relazioni sono un bisogno primario e la deprivazione porta a comportamenti che hanno il fine di mantenere quel bisogno. Infine, va considerato il fatto che i comportamenti individualisti nascono dalla difficoltà di percepire il legame causale tra quanto accade e la nostra responsabilità individuale come se i comportamenti dei singoli fossero irrilevanti.

 

L’esperienza comune che stiamo vivendo rinforza la nostra identità sociale o la sostituisce con una nuova, provvisoria e funzionale all’esperienza comune? Riunirsi sui balconi e cantare è un rito di appartenenza alla comunità?

L’esperienza che stiamo vivendo è un’esperienza con una specificità unica: tutta l’umanità, in questo momento, è impegnata contro un nemico comune che non conosciamo e che non ci è familiare. Stiamo combattendo tutti la stessa guerra e riunirsi sui balconi a cantare l’inno nazionale è un rito di condivisione che riattiva il senso di collettivo e rafforza l’appartenenza. L’identificazione con il proprio gruppo sociale permette di gestire e contenere la paura perché di fronte a una minaccia terribile come quella della pandemia la comunità ha una funzione protettiva.

 

La sospensione dalla normalità che stiamo vivendo porta in sé nuove opportunità per le persone e la società? Se sì, quali sono?

La crisi che stiamo attraversando rappresenta un vero e proprio elemento di rottura, sia a livello individuale che collettivo, e rappresenta una grande opportunità. A livello individuale la crisi rappresenta la possibilità di rivalutare la propria persona e tutti gli aspetti che la riguardano. A livello collettivo la crisi porta in sé una scelta determinante, da che parte stare, dalla parte del singolo o del gruppo? Se da una parte questa epoca di crisi e cambiamento ha riattivato la coesione sociale e il discorso collettivo, la solidarietà e la reciprocità, dall’altro, esiste il rischio di uno scivolamento verso posizioni conservatrici a favore del singolo o di piccoli gruppi con effetto di discriminazione e isolamento di chi rappresenta l’altro.